Ci sono due modi per capire che si è persa una persona. Il primo è quello più subdolo lento ed erosivo. Perché avviene attraverso un distacco che può sembrare dia o restituisca spazi di libertà. E sembra quasi di respirare nuova aria, di riappropriarsi del proprio tempo facendo uscire la persona amata dal cerchio delle cose intime. “Non devo chiedere a nessuno se devo andare a giocare a calcetto con gli amici”, ” non devo rendere conto a nessuno se voglio bere una birra una sera con le amiche” e la persona amata si allontana diventando sempre più piccola fino a scomparire dietro l’egoistico pensiero che tanto è sempre lì, a disposizione e pronta a tornare per andare avanti come se nulla fosse. Ed invece no. La persona amata è già su un’altra via, quella che la porterà verso chi saprà darle attenzione, la saprà coinvolgere nelle cose intime e la farà sentire importante. C’è poi il distacco violento, quello che si trasforma in un pugno allo stomaco ed in un attimo mette davanti agli occhi tutta l’importanza che ha la persona che si sta perdendo.
Fu Matilde quel pomeriggio a dargli quel pugno nello stomaco. Quando gli disse che era stata da Lei, in quella camera d’ospedale, sentì il vuoto crearsi nella pancia, l’accelerazione improvvisa del cuore, il calore salire lungo il collo e penetrare nel cervello fino a far accapponare la pelle della testa e ridiscendere poi come una scossa elettrica giù per la schiena. Sentì cedere le gambe, avrebbe voluto sedersi, ma si resse con le mani sul muro.
Matilde lo rassicurò. “È sveglia, non ha riportato danni permanenti, tranquillo. Entro un paio di giorni uscirà. Vado a prenderla io dopodomani.” Ma quelle parole risuonavano nella mente come quando urlava nelle scale del vecchio condominio del suo amico Lele, dove ogni parola si perdeva nei dodici piani del palazzo rimbalzando sulle pareti di cemento e mattoni che rimandavano una eco lontana e sorda.
Arrivò in ospedale senza sapere che strada aveva percorso, senza accorgersi di aver bruciato almeno due semafori rossi e senza ricordarsi che poche ore prima le aveva scritto che non c’era per lei e che, probabilmente, non ci sarebbe mai stato, ottenebrato dalla paura e da un pizzico di egoismo che l’avrebbero allontanata comunque, sicuramente fino a perderla.
“Ciao”
“Ciao”. Lo salutò abbassando gli occhi dopo un iniziale abbozzo di sorriso.
“Come stai?” disse avvicinandosi al letto.
“Meglio, grazie”. Gli parlò senza riuscire a sollevare lo sguardo verso di lui. Sentiva il cuore in gola ed una voglia matta di dirgli di uscire, andare via e sparire per sempre, ma anche di toccargli il viso, accarezzare i suoi capelli e baciarlo fino all’ultima goccia di ossigeno nei polmoni.
Rimasero in silenzio per alcuni secondi che sembravano ore, giorni, settimane. “Senti..” stava per pronunciare le sue parole, ma lei lo interruppe nello stesso tempo.
“Perché? Perché?” Affiorarono due lacrime dal bordo dei suoi occhi. Scesero lungo le guance molto lentamente, quasi come se volessero fermarsi per farsi vedere, per poter testimoniare il dolore che portavano con loro.
“Scusa” balbettò lui con un filo di voce quasi impercettibile.
“Cosa non va? Cosa è cambiato dalla notte di San Lorenzo? Perché hai deciso di calpestare il mio cuore ed il tuo cuore lasciando che la felicità d’amore rimanga un’illusione svanita nel nulla?”
“Scusa..” ripetè alzando appena il tono. Non era chiaro se quelle scuse le stesse porgendo più a lei o a sé stesso. Si sentiva frustrato, provava risentimento verso la debolezza, la fragilità, la paura di amare che aveva combattuto in quei mesi, e contro cui aveva avuto la possibilità di avere al fianco lei.
Le prese la mano. La accarezzò con delicatezza e le asciugò il viso segnato dal pianto silenzioso. Si avvicinò alle labbra con le sue e le sfiorò come una piuma leggera che si posa.
“Scusa” le ripetè sottovoce. Ma questa volta lei lo sentì. Ed il sole si riaffacciò nei loro occhi dopo giorni di nuvole e nebbia. Solo la tempesta ed il sole, insieme, possono creare la meraviglia dei colori dell’arcobaleno.
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