Oggi 8 Marzo 2022 in questa data che ricorda la Festa della Donna, intendo condividere con voi un racconto molto bello di Fiorella Mandaglio, che ci ha permesso la pubblicazione integrale dello stesso e di questo la ringraziamo. Il racconto ha vinto il concorso Codice rosso della mreditori ed é stato inserito nell’omonimo libro:Codice Rosso: dove tutto ha avuto inizio”. Il racconto mi ha colpito per molti aspetti quello principale é la tipologia di sofferenza che viene descritta da una donna che parla del suo ‘Amore’ sbagliato e di una storia ‘malata‘. Non una sofferenza fisica, la donna in questione non ha mai subito una violenza di questo tipo, ma a mio parere ne ha dovuta sopportare una altrettanto grave, ossia la violenza psicologica. Una violenza meschina che nel tempo l’ha portata a sentirsi una nullità, ad azzerare la propria autostima e ad annullarsi per poter essere ‘accettata’ e per sentirsi all’altezza di un uomo che é riuscito nel tempo a farla sentire insicura ed inadeguata. Per fortuna la ragazza in questione ha avuto il coraggio di liberarsi di questa persona e chiudere una storia che la rendeva infelice ed é riuscita a tornare a vivere pienamente e a credere in sé stessa. Questo per ricordare alle donne che non solo la violenza fisica e da condannare, ma la violenza in ogni sua forma, anche quella verbale, quella come dice la protagonista, ogni giorni si insidia e ‘colpisce’ dritto al cuore e talvolta può lasciare cicatrici perenni nell’anima che faticano a colmarsi ancor più rispetto a quelle del corpo.

A voi la storia:

Il problema è che spesso non vieni creduta oppure passi per pazza. È normale, no?

Forse sarebbe stato meglio rientrare in quella fascia di donne che prendono un sacco di botte dal compagno, no, non fraintendete e soprattutto non giudicatemi.

Non mi conoscete e non conoscete la mia storia: non potete capire la riflessione di poc’anzi.

Credevo di essere una donna intelligente: aspetto piacente, persona piacevole, bei voti a scuola, un lavoro che era passione e … lui, l’uomo che amavo.

Non era il classico tipo che ti fa sentire al sicuro, spesso nelle difficoltà era più propenso a salvare se stesso che ad accertarsi che io stessi bene, ma ora non importa.

Non importa più nulla. Non provo più nulla.

Mi sento solo stupida e derisa due volte.

Credevo in lui e pensavo che tutto quello che accadeva tra noi, il suo modo di fare, fosse normale.

Mi spiego meglio: fin da bambina mi hanno insegnato che gli uomini sono forti, hanno poca pazienza e soprattutto sono il capo famiglia. Una brava moglie lavora, accudisce i figli e si prede cura de marito. Abnegazione, consenso e silenzio.

Ma è davvero così?

Ho passato tanti anni a piangere, mi sentivo una stupida inetta. Qualsiasi cosa io facessi mi sentivo dire che non andava bene e che ero incapace. 

Dovete scusarmi, purtroppo la mia autostima è a livello zero e  la mia psicoterapeuta cerca di darmi il tempo necessario per digerire il passato fino a non soffrire più l’ossessione di sentirsi annullata.

Passato che purtroppo non riesco a lasciare alle spalle. Ma ci sto lavorando.

Tutti credono alla violenza che vedono, a quella violenza fisica che lascia i segni sul corpo, un segno di bruciatura sul braccio porta chiunque a credere nel maltrattamento, ma purtroppo ancora oggi è molto difficile spiegare cosa prova chi subisce quella violenza invisibile che ti fa perdere l’autostima, ti rende tremendamente insicura di te stessa e ti fa vivere come una tossicodipende da affetto.

Ma la cosa peggiore è che nessuno ti crede, a volte neanche gli operatori di legge … tranne ovviamente la terapeuta.

Ha passato tanti anni a sentirmi dire che il mio lavoro era equivalente al fancazzismo e che una volta tornata a casa potevo mettermi subito a stirare e  cucinare poiché, a differenza di un uomo, la donna esegue solo lavori che non stancano.

Io invece mi sentivo distrutta, uscivo dal mio ufficio stanca, però credevo avesse ragione e dunque lavoravo il triplo mentre lui guardava la tv disteso sul divano con birra in mano.

Avere a che fare con il pubblico tutto il giorno ti stanca mentalmente e la sera a volte ti fanno anche male le gambe. Ma questo non conta: sei donna? Ti toccano i lavori domestici.

Fosse questo, nulla di male, ma il problema è che non andava mai bene niente: trovava sempre il pelo nell’uovo per denigrarmi e paragonarmi alla madre che quando non volevo piangere, per cacciare via, con cattiveria, quelle maledette lacrime, la dipingevo a colori vividi nella mia mente come un Mastro Lindo in gonnella.

Spesso capitava che il piatto con le pietanze finisse nel cestino dell’immondizia accompagnato da molti insulti che denigravano le mie capacità culinarie. Pensate che scema, stavo zitta e pulivo i cocci rotti ed il cibo sul pavimento. Tanto che per lui mi ero iscritta ad un corso di cucina, ma nulla: era tutto schifoso e soprattutto diceva che ci andavo per conoscere altri uomini.

Ribadisco che non mi ha mai messo un dito addosso, io non ho alcun segno sul corpo procurato da lui: le mie cicatrici sono nella mente e nel cuore.

Mio padre mi aveva cresciuta bene, mi aveva insegnato ad amministrare le mie finanze e finché ho vissuto da sola riuscivo anche a racimolare dei gruzzoletti di risparmio per le spese impreviste e le vacanze.

Per il mio Amore invece i soldi non bastavano mai, mi aveva convito che non fossi nemmeno più capace di fare la spesa alimentare.

Io non potevo andare in giro da sola, o meglio, non mi diceva “Non uscire da sola”, il mio Amore ripeteva che compravo alimenti troppo costosi e che detestava il modo in cui mettevo nei sacchetti i prodotti. E poi, c’erano rapinatori e stupratori che mi avrebbero fatto del male se fossi uscita sola. Buffo no?

Così dopo moltissimi litigi dove mi sentivo dire che ero inetta ed incapace di amministrare il mio stipendio mi convinceva a consegnargli la mia carta bancomat ed a renderlo cointestatario del mio conto corrente. Mi aveva promesso che mi avrebbe dato tutti i soldi  per soddisfare le mie necessità perché lui badava a me, piccola donna incapace di stare al mondo.

Ed invece da  quel momento in poi ho dovuto tirare tutto il mese con dei miseri venti euro in tasca.

Mi vergognano come una ladra e non mi fermavo più a prendere il consueto caffè mattutino con le amiche. Non sapevo cosa fosse peggio: farsi offrire il caffè tutti i giorni o vedere piombare all’improvviso nel bar il mio Amore per sincerarsi dove e con chi fossi.

Giusto, le amiche. 

A poco a poco, questa relazione mi ha isolato. Ogni uscita con le amiche era preceduta da brutti litigi che mi facevano sentire in colpa. Mi accusava di non amarlo e di trascuralo per stare con delle sgualdrinelle in cerca. La sensazione che provavo era bruttissima, lo immaginavo solo a casa e mi assaliva la tristezza. Risultato: non uscivo, rimanevo a casa.

Io lo amavo e per questo sono rimasta sola. Isolata. Le mie amiche mi cercavano e mi invitano ad uscire anche in coppia, ma lui diceva che non voleva rompi scatole tra i piedi e che preferiva stare tranquillo nel nido con me, ovviamente quando non aveva calcetto, piscina e la birra con gli amici.

Ultimamente avevo anche paura di guidare.

Pur essendo automunita secondo il mio Amore non ero capace di guidare in superstrada ne tantomeno percorrere in sicurezza un’autostrada. Non parliamo dei parcheggi! Era inutile, secondo lui rischiavo sempre di danneggiare gli altri veicoli, e sarebbe stato seccante il rincaro dell’assicurazione. Perciò se guidavo io, dovevo scendere e far fare le manovre a lui. Eppure in passato lo avevo fatto. Avevo preso la patente neo-maggiorenne!

Ma sapete mi ero convita di non essere in più capace, soprattutto quando gridava spaventato “Attenta scema!” il tuffo al cuore che mi procurava mi faceva sentire fragile ed insicura.

Io non ero all’altezza di nulla. Non ero all’altezza per lui.

A distanza di anni, adesso che mi viene in mente, non mi ha mai presentato agli amici. Ogni volta che incontravamo qualche suo conoscente, pronunciava il mio nome come se fossi un’estranea e poi mi escludeva dalla conversazione come se non esistessi. Ogni tentativo di intervenire veniva seccamente interrotto con la frase diretta all’altra persona “Beh ti saluto, ti chiamo dopo, parcheggio lei.

Penso che la nostra relazione fosse un segreto di stato, tranne che per sua madre.

Mi obbligava ad andare a trovarla per pulirle casa. Anche quando ero stanca e non stavo bene, diceva che una nuora è come una figlia che i genitori mettono al mondo i figli per servirsene.

Grazie a Dio, noi non ne abbiamo avuti, altrimenti sarebbe stato più difficile per me lasciarlo, forse sarei ancora lì, a sentirmi vomitare addosso parole denigratorie, cattive e pungenti.

Ero ridotta uno straccio, mia madre e mio fratello continuavano a dirmi che da quando vivevo con lui avevo perso il sorriso e piangevo sempre.

Parlavo poco.

Mio fratello poi non riusciva a comprendere perché non potessi stare sola a casa con loro ma doveva sempre esserci anche lui, attentissimo ad ascoltare ogni parola ed ogni risposta.

Ricordo che un giorno mio fratello Diego ha affrontato la questione di petto chiedendo al mio Amore perché fosse così morboso nei mie confronti e non mi lasciasse uscire da sola.

Il confronto finì con una bruttissima lite dopo la quale il mio Amore mi proibì, in nome del nostro Amore, di tornare dalla mia famiglia.

Ero sola.

Passavo le mie giornate tutte uguali: lavoro, casa. Uscivo solo quando lui ne aveva voglia e quando non era impegnato a seguire le sue passioni . Di norma, portava con se le chiavi di casa.

Io non avevo segni sul corpo, ma lentamente mi stavo spegnendo dentro. Morivo dentro.

Tutti mi dicevano che avevo accanto un uomo brillante e solare sempre con la battuta pronta ed il sorriso sulle labbra.  Lui stesso mi ripeteva che solo un santo come lui poteva sopportare una come me.

Un santo, a cui mancava solo l’aureola. Io invece volevo solo morire. Non vedevo la via d’uscita. Non parlavo con nessuno, per vergogna.

Mi sentivo un oggetto, soprattutto nell’intimità. Non aveva rispetto della mia sessualità e della mia sensualità. Mi obbligava ad avere rapporti sessuali per soddisfare le sue voglie. L’approccio era sempre lo stesso “ Sbrigati che c’ho bisogno”.

Che schifo. Col tempo ho perso anche la bellezza, il romanticismo e la passione che dovrebbe coinvolgere la coppia in un rapporto sessuale. Lo facevo e basta, come gli animali senza nemmeno spogliarsi completamente. In fondo se non ubbidivo mi sentivo dire che non ero buona neanche a quello e che sarebbe andato dalla prima puttana per strada che era sicuramente più brava di me a soddisfarlo.

Mi sentivo sempre più lacerata nell’anima e dentro un vortice, un uragano violento dal quale non c’era via d’uscita.

Però, pensavo, che almeno era fedele.

Invece no.

In una bellissima giornata temporalesca di pioggia intensa il postino fradicio mi recapita una sanzione della Polizia Stradale. Era proprio indirizzata a me, poiché la targa era quella del mio veicolo. Ed ecco la ciliegina sulla torta: la multa sanzionava il conducente che si era fermato in strada con una prostituta. Non ci credevo o meglio non ci volevo credere.

La cosa più bella fu che una volta tornato a casa, alla mia richiesta di spiegazioni mi venne detto che come al solito ero una rottura di scatole e che avevano capito male: lui stava chiedendo indicazioni perché uscito dal pub dove era stato con gli amici per una birra aveva perso la strada del ritorno ed era casualmente finito in quel boschetto. Ovviamente lo aveva spiegato anche ai poliziotti che non gli avevano creduto.

Ogni volta era così, ero sempre io che capivo male o che ero troppo stupida per capire o che non sapevo stare al mondo e che non ero alla sua altezza in quanto non ero aperta alla vita. Ma quale vita? Vivevo dentro una prigione psicologica fatta di sensi di colpa.

Mi chiedevo cosa ci stesse a fare con una come me, perché non mi lasciava per un’altra?

Piangevo e stavo male. Purtroppo ero in trappola.

Lavoravo ma non avevo un soldo in tasca.

Le amicizie, col tempo, avevano smesso di contattarmi perché trovavo sempre una scusa per non uscire finché, stanche e sconfortate, tutte le amiche hanno mollato la presa.

Mio fratello non mi rivolgeva più la parola e non potevo mandare lunghi messaggi o telefonare a mia madre perché il cellulare era sempre scarico di soldi e poi lui lo controllava quotidianamente attraverso un’applicazione con cui leggeva tutti i miei messaggi da remoto.

Un giorno avevo provato a parlare con un agente di polizia di quartiere, ma lui era molto conosciuto in zona e quello, quando feci il nome del mio Amore, mi chiese di portargli i suoi saluti.

Che delusione, non aveva capito nulla, ma soprattutto non mi aveva ascoltato.

Piangevo. Non ne sarei uscita viva.

Smisi di andare al lavoro perche avevo iniziato a prendere di mia spontanea iniziativa degli psicofarmaci per attenuare il dolore che sentivo dentro.

Mi ripetevo che non facevo così schifo come mi dipingeva lui e che in passato avevo avuto accanto persone che mi stimavano, ma niente. Nella mia testa tuonavano le sue parole perfide: Sei una perdente. Non sei buona a nulla. Sei fortunata che ti scopi il datore di lavoro altrimenti non avresti neanche un lavoro. Rompi scatole, pulisci e stai zitta.

Mi imbottivo di psicofarmaci per stare calma ed andavo al lavoro intontita finche un giorno mi sono sentita male ed il mio capo, trovato nel cassetto della scrivania la boccetta del medicinale me ne chiese conto. Preoccupato mi aveva chiesto se avessi problemi con il mio compagno, ma io piena di vergogna non risposi. Lui mi stimava molto e mi affidava incarichi sempre delicati e complicati. Ma incerto su cosa fare, mi impose una settimana di ferie.

Il terrore scese sul mio viso. Piansi, pregai con tutte le mie forze di non lasciarmi a casa.

Devo dire che quell’uomo pose la prima pietra verso la mia salvezza. Mi permise di andare al lavoro con la promessa di non assumere psicofarmaci senza prescrizione medica. Controllava ogni giorno.

Ero disperata, a casa piangevo ma al mio Amore non importava. Per lui contava solo che soddisfasi le sue voglie sessuali e che il bancomat fosse carico a fine mese.

Non potevo perdere il lavoro, così messe da parte le gocce, iniziai a tagliarmi.

Vedere il sangue che usciva dalle ferite che mi procuravo alleggeriva il dolore psicologico e induriva il cuore. Avevo le braccia, le gambe ed il torace pieno di tagli che nascondevo con pantaloni e maglie a manica lunga. Anche in piena estate. Nessuno osava chiedere per quale motivo non mettessi da tempo un bel vestito, magari uno di quelli che adoravo tanto. Tutto quello che mi capitava sembrava normale, o meglio lui appariva dolce e gioviale in pubblico mentre io ero diventata quella strana, fuori di testa che non parlava con nessuno.

Il tempo purtroppo passa e ti abitui a tutto. IO mi ero abituata anche a sentirmi dire che ero pazza e che non mi rendevo conto di quanto fossi fortunata ad avere quell’Amore accanto.

In fondo, non  mi picchiava.

Ormai non piangevo più, non commentavo più. Stavo zitta e non replicavo ai suoi insulti. Facevo come un automa quello che mi comandava e mi tagliavo continuamente finché ho rischiato di morire dissanguata.

In testa avevo sempre quella sensazione che l’unica via d’uscita fosse eliminare me stessa, ma cosa dovevo eliminare? Ero già stata psicologicamente annientata, distrutta nell’autostima. Ero diventata insicura, sciatta e depressa. Così feci un taglio troppo profondo ed andai al lavoro.

La ferita al polso sanguinava abbondantemente nonostante avessi medicato e tamponato con delle garze ma questo non sfuggì allo sguardo attento del mio capo che allertò subito l’ambulanza.

Con molta insistenza mi trasportarono al pronto soccorso di zona e quando la dottoressa mi visitò non ci mise molto a capire che il mio corpo era pieno di ferite auto inferte.

Mi fece trasferire al pronto soccorso psichiatrico dove iniziai a parlare con la psicologa che – non ho idea di come diavolo fece –  ma capì immediatamente che ero una vittima di violenza domestica di tipo psicologico.

Quando me lo disse mi misi a ridere. Io? Vittima di violenza? Ma non vede che non ho segni? Lei è fuori strada sono io che mi taglio! Anche il mio Amore dice che sono pazza! Fu in quel momento che mi  fece capire che non esiste solo la violenza fisica ma anche quella psicologica ed economica.

Che quel tipo di violenza è devastante e che se non ti accorgi per tempo di vivere in una relazione tossica finisci come me: ad essere una larva di te stessa abituata a sentirti dire che non conti una mazza e che con l’età diventi strana e pazza.

Durante il periodo del ricovero in ospedale mi era stato proibito di avere contatti con il mio Amore.

Ogni giorno si presentava in reparto ad urlare e minacciare. Ma loro, imperterriti non lo facevano entrare. Era dura non sentirlo perché la routine è difficile da modificare. Però un poco alla volta stavo meglio, mi ero accorta che mi piaceva dormire senza sentirmi obbligata a fare sesso a comando o svegliarmi con lui addosso. Era strano avere accanto persone che non ti insultavano.

Mi sentivo tranquilla, forse, anche un po’ serena. Il personale era gentile anche se avevo perso il sorriso. Non riuscivo a ridere neanche alle battute più divertenti.

Durante la permanenza in ospedale la psicologa mi fece parlare con dei poliziotti che mi informarono circa la possibilità di querelare ed accedere ad una tutela speciale per donne maltrattate. Ero indecisa.

Non avevo i miei soldi. Avrei perso tutto: la casa, il lavoro ma soprattutto sarei rimasta ancora più sola. Questo mi faceva paura. Ma in fondo al mio cuore non volevo tornare con quell’Amore.

Avevo ancora quella piccola luce di speranza che mi gridava “Vivi!”

Così mi buttai ad occhi chiusi verso l’ignoto e per la prima volta in vita mia chiesi aiuto a tutte quelle persone che mi ruotavano intorno. Raccontavo in modo confuso episodi che per me erano quotidianità con sospetto. Mi sorprendevo nel vedere i visi dei miei interlocutori stupiti e tristi via via che mi aprivo al dialogo.

Lentamente iniziavo a conoscere nuove persone e ad avere contatti col mondo esterno.

Ripresi anche i contatti con mia madre e mio fratello che mi diedero tutto il loro appoggio per ricominciare a vivere con più serenità.

Quello che successe da lì in poi è un’altra storia, una vicenda processuale difficile dove purtroppo neanche la giustizia riconosce a pieno l’ esistenza della violenza psicologica, così difficile da accertare.

Purtroppo gli esperti giudiziari prendono in considerazione solo i precedenti psicologici degli attori. La donna psicologicamente maltrattata è il soggetto fragile con scompensi psicologici.

Non viene dato peso all’origine di questo scompenso innescato da  quell’Amore che usa le parole per uccidere.

Con superficialità ci si ferma alla maschera portata da chi si spaccia in pubblico per il buono.

Forse sarebbe stato meglio rientrare in quella fascia di donne che prendono un sacco di botte, mi avrebbero subito creduta.

Ma questo non importa, oggi sto bene: non mi taglio, non assumo psicofarmaci, ho conservato il mio posto di lavoro, ho riavuto il mio bancomat e nuove amicizie.

Ma soprattutto ho imparato che non si può chiamare Amore un uomo che non ha rispetto di te.

Di Erica Venditti

Erica Venditti, Classe 1981, giornalista pubblicista dal 2015. Ho conseguito in aprile 2012 il titolo di Dottore di Ricerca in Ricerca Sociale Comparata presso l’Università degli studi di Torino. Sono cofondatrice del sito internet www.pensionipertutti.it sul quale mi occupo quotidianamente di previdenza.